All’inizio dell’anno, il consensus prevedeva una crescita globale sincronizzata, prezzi delle materie prime più solidi e un indebolimento del dollaro. Ci si aspettava che i tassi USA aumentassero, ma in modo ordinato e non prima della seconda metà dell’anno. Tuttavia, due sviluppi nel primo trimestre hanno messo in discussione questo scenario, favorendo gli Stati Uniti rispetto al resto del mondo: la vittoria democratica in Georgia, che ha aperto la strada a maggiori stimoli fiscali, e il peggioramento della pandemia in Europa mentre negli USA le vaccinazioni sono andate meglio del previsto. Questi fattori hanno portato a loro volta a un aumento dei tassi statunitensi, rafforzamento del dollaro e calo dei flussi verso i mercati emergenti.
“Nonostante la debolezza del primo trimestre, vale la pena sottolineare che i mercati emergenti tendono a beneficiare nei periodi di forte crescita, soprattutto nelle fasi iniziali di un ciclo di business“. Ad affermarlo è Anisha Goodly, Emerging Markets Portfolio Specialist, TCW che di seguito illustra nel dettaglio il proprio outlook.
Ci aspettiamo che l’economia globale cresca del 5,7% nel 2021 contro il -3,4% del 2020. Inoltre, la crescita dei mercati emergenti è legata a doppio filo a quella della Cina, che dovrebbe raggiungere l’8,5%. I primi segnali di ripresa sono già visibili nel rapido incremento dell’export dei mercati emergenti e nell’inizio di un nuovo ciclo di capex che dovrebbe supportare l’aumento della produttività.
Fonti: Haver Analytics, national sources, Morgan Stanley Research. Dati al 31 marzo 2021
Inoltre, nonostante il deterioramento dei bilanci fiscali nel 2020 per via del Covid-19, le probabilità di una vera e propria crisi del debito emergente nel breve periodo sono basse. Infatti, crediamo che gli asset emergenti siano in grado di sostenere l’impatto del rialzo dei rendimenti core a patto che ciò sia spinto principalmente da un rimbalzo della crescita globale, e non da un cambiamento delle aspettative sulle politiche della Fed. Inoltre, la bilancia dei pagamenti dei mercati emergenti è in condizioni decisamente migliori rispetto ad altre circostanze nel periodo successivo alla crisi finanziaria globale. I Paesi emergenti dipendono meno dai finanziamenti esterni, un aspetto cruciale in termini di resilienza. Infine, le riserve sovrane e la liquidità del settore privato sono entrambe aumentate, formando un cuscinetto contro i possibili cali temporanei degli afflussi.
Dal punto di vista delle valutazioni, i mercati emergenti sono ancora attraenti sia considerando i valori storici, sia rispetto agli altri comparti obbligazionari. Gli spread sovrani emergenti si aggirano intorno ai 350 punti base, contro una media a lungo termine di 300. Inoltre, il credito emergente rispetto quello dei mercati sviluppati, dove si sono registrati restringimenti più aggressivi, scambia vicino ai massimi del range degli ultimi due anni. Sebbene la pandemia abbia provocato un certo deterioramento nella qualità del credito, crediamo che il culmine del ciclo di downgrade sia stato superato e che gli spread sovrani possano restringersi di altri 25 punti base nel prossimo anno. Il movimento dei tassi negli USA è più vicino alla conclusione che all’inizio, almeno per il momento, e la Fed manterrà stabile i tassi di riferimento nei prossimi 12-24 mesi. Un contesto dei tassi più stabile, unito al restringimento degli spread e a un carry del 5,3% circa rendono l’asset class molto interessante. Inoltre, vale la pena inserire i mercati emergenti in un portafoglio globale anche per ragioni di diversificazione, soprattutto in un mondo di rendimenti bassi.
L’outlook per il debito emergente in valuta locale è leggermente più sfidante nel breve termine. Sebbene i modelli di valutazione indichino che le valute emergenti sono a buon mercato, il rendimento dell’indice del debito sovrano emergente in dollari (EMBI Global Diversified), pari al 5,3%, è più elevato di 30 punti base rispetto all’indice in valuta locale (GBI-EM Global Diversified), con il vantaggio ulteriore di non dover sottostare alla volatilità valutaria.
Nel breve periodo ci aspettiamo una sovraperformance del dollaro, ma nel lungo termine i deficit fiscali da record e il deficit delle partite correnti in aumento metteranno sotto pressione il biglietto verde. Infatti, negli USA c’è una stretta correlazione inversa tra i deficit gemelli e la forza del dollaro, con un ritardo di circa due anni. Inoltre, fabbisogni di finanziamento più elevati richiedono che gli USA offrano tassi più elevati per mantenere stabile la valuta. Se la Fed non alzerà i tassi prima del 2024 – o anche del 2023 – questi si riveleranno insufficienti a sostenere il recente slancio del dollaro. A quel punto, aumenteranno le opportunità per aumentare l’esposizione al debito in valuta locale.
In conclusione, pur rimanendo costruttivi sull’asset class alla luce della crescita globale in aumento, valutazioni attraenti e volatilità dei tassi in calo, riconosciamo che la selezione è fondamentale in un universo che comprende oltre 70 Paesi, soprattutto se si considera che i deficit sono aumentati nell’ultimo anno.