Investimenti: le politiche della domanda incontrano i primi ostacoli

Se ritrovate in soffitta vecchi dischi, cassette audio o videocassette e non trovate più (o non avete mai posseduto) giradischi o lettori, potete ancora ascoltare e vedere il loro contenuto. Potete comperare apparecchi d’epoca sui siti dell’usato o nei negozi di modernariato (dove sono in vendita anche i magnetofoni) ma se volete un apparecchio nuovo di fabbrica potete ancora trovare, in qualche angolo buio dei megastore di elettronica, fonovaligie, giradischi e lettori.

Li producono generalmente piccole case di nicchia, che hanno magari rilevato a prezzo di saldo tecnologia e macchinari da case più grandi, che hanno abbandonato da tempo queste linee. Il design e il motore sono infatti gli stessi di 30 o 50 anni fa, con qualche rinfrescata come Bluetooth o la possibilità di riversare il contenuto su formati elettronici. Sono slowseller, ovviamente, ma gli appassionati che li acquistano sono disposti a pagare un certo premio. Per i produttori, che hanno da tempo ammortizzato i costi, i margini sono buoni. A nessuno di loro, tuttavia, verrebbe in mente di investire massicciamente in ricerca o in nuovi macchinari.

Fatte le debite proporzioni, qualcosa di simile avviene nel mondo dei semiconduttori. Ci sono qui due segmenti. Il primo è quello di frontiera, rivolto agli usi tecnologicamente più avanzati. È qui che è in corso da due anni una competizione strategica molto accesa (e piena di colpi bassi) con la Cina, che su questo terreno è ancora indietro. È qui che vengono (e verranno) spese cifre enormi per la ricerca e, ancora di più, per la produzione dei macchinari che produrranno i chip di nuova generazione. Ed è qui che sono posizionati i produttori di punta taiwanesi e, un po’ più indietro, americani.

C’è poi un secondo segmento, dedicato alla produzione di chip più voluminosi e più semplici per le automobili, per l’elettronica di consumo e per quel numero potenzialmente infinito di oggetti che ci siamo compiaciuti di definire l’Internet delle cose. Servono a tutto e li ritroviamo quando apriamo il finestrino o spostiamo il deflettore della macchina, quando facciamo il bucato o cuociamo la cena e perfino, come abbiamo visto, nei giradischi sopravvissuti alla selezione naturale.

I chip di questo tipo, come nota Vincent Tsui di Gavekal, sono tipicamente fabbricati da produttori anche importanti, ma non necessariamente di frontiera, che hanno acquistato a basso prezzo macchinari usati e vendono ampi volumi a prezzi contenuti.

Allo scoppio della pandemia molti utilizzatori di questo secondo tipo di chip, tra cui le case automobilistiche, hanno tagliato i loro ordini, mentre la domanda del primo tipo è rimasta sostenuta (si pensi alle console per videogiochi). I produttori, a loro volta, hanno tagliato i loro volumi. Già in autunno ci si è però accorti che la domanda di auto stava esplodendo in tutto il mondo. Con più auto richieste dai clienti e meno chip a disposizione le case automobilistiche (e con loro i produttori di elettronica di consumo) si trovano ora nella paradossale situazione di dovere chiudere stabilimenti (come ha annunciato Ford) proprio mentre la domanda è fortissima.

Anche i chip del primo segmento faticano a tenere testa alla domanda, ma almeno qui si può contare sugli enormi investimenti in nuova capacità produttiva che diverranno operativi nel breve e medio termine. Nel segmento meno sofisticato, tuttavia, non si vedono al momento significativi investimenti in nuovi macchinari, per cui la fase di carenza prevista continua ad allungarsi nel tempo, con Ford che ha parlato di altri due anni.

Si può pensare che si tratti di un problema circoscritto, ma c’è già chi rivede al ribasso le stime di crescita per l’Asia e per i settori interessati. E non è molto diversa la situazione in altri comparti come ad esempio le materie prime. Se in alcuni settori come il petrolio l’offerta è riattivabile nel giro di qualche mese, in altri, come il rame, occorrono 5-10 anni per mettere in produzione una nuova miniera. Colpisce inoltre che la ripresa in corso, ancora a metà strada a livello globale, stia già facendo salire il prezzo del carbone e dell’uranio. Anche in questo caso, la mancanza di nuovi investimenti in settori considerati in via di estinzione produce l’effetto di fare crescere i margini dei produttori sopravvissuti.

Non siamo entrati da molto nel nuovo superciclo della domanda, fatto di straordinari impulsi fiscali e monetari, che già vediamo i primi effetti collaterali. E questi effetti non sono solo sui prezzi, ma anche sulla crescita, se l’offerta non è elastica e non risponde ai prezzi.

Sono ben note le critiche di Keynes alla legge di Say, che sostiene che l’offerta crea la sua propria domanda. E il superciclo offertista è finito proprio perché si è visto che stimolare l’offerta ostacolando la domanda crea output gap e deflazione.

Succede però anche il contrario. I domandisti sono convinti che la domanda crei sempre la sua offerta ma non è sempre così, soprattutto se, mentre si stimola la domanda, si deprime l’offerta. Sarebbe bello un mondo in cui si presta uguale attenzione ai due fattori, domanda e offerta, ma storicamente è una circostanza poco frequente.

Detto questo, non è il caso di preoccuparsi oltre il dovuto per due fattori.

Il primo è che se la domanda trova un ostacolo nell’offerta di un prodotto, può sempre rivolgersi a un prodotto diverso. Se in questi mesi si sono accumulati risparmi un po’ in tutto il mondo e se gli spiriti animali ritornano a spingere la propensione a consumare, chi non trova un’auto dal concessionario e non ha voglia di iscriversi in una lunga lista di attesa finirà con lo spendere in altre direzioni.

Il secondo, evidenziato recentemente da David Zervos, è che la crisi, come tutte le recessioni, ha prodotto un significativo aumento di produttività, in particolare negli Stati Uniti. L’America nel primo trimestre 2021 ha prodotto di più, in termini reali, che nel primo trimestre 2020 e lo ha fatto impiegando 8.5 milioni di persone in meno. Tecnologia e riorganizzazioni hanno dunque permesso di creare un buffer di disoccupati che potranno ritrovare un impiego senza creare troppe tensioni inflazionistiche nella fase di ulteriore crescita che ci aspettiamo per i prossimi trimestri.

Sintetizzando, abbiamo davanti una fase in cui potremo ancora premere l’acceleratore senza fare surriscaldare pericolosamente il veicolo. L’auto però si metterà ogni tanto a vibrare e i mercati reagiranno a queste vibrazioni con più volatilità e, di tanto in tanto, con correzioni. Prediligere i ciclici rispetto alla crescita andrà ancora bene, ma andrà integrato con un’attenta valutazione delle strozzature evidenti nel sistema, che potranno in certi casi penalizzare alcuni ciclici e premiare alcuni comparti di crescita.

A cura di Alberto Fugnoli, strategist di Kairos