La recente emissione di bond in dollari statunitensi da parte della Cina ha sorpreso i mercati e sollevato una domanda che fino a poco tempo fa sarebbe sembrata provocatoria: Pechino è diventata il nuovo punto di riferimento del rischio sovrano?
Il 5 novembre, il governo cinese ha collocato 4 miliardi di dollari di obbligazioni denominate in dollari, suddivisi in due tranche da 2 miliardi ciascuna. L’interesse degli investitori è stato straordinario: il libro ordini ha raggiunto 161 miliardi di dollari nel momento di picco, chiudendo comunque a 118 miliardi al momento del pricing finale. La tranche a 3 anni è stata prezzata “a zero punti base sul Treasury USA”, mentre quella a 5 anni “a più 2 punti base”.
Il giorno successivo, i titoli hanno registrato una forte performance sul mercato secondario, scambiando fino a oltre 30 punti base al di sotto dei Treasury statunitensi. Un fenomeno insolito, soprattutto considerando che la Cina, con rating A+, viene percepita come meno solida rispetto ad altri emittenti sovrani di qualità elevata come Corea del Sud, Abu Dhabi o Qatar, tutti con rating AA.
“Cos’ha di così speciale la Cina?”, si chiede Charles de Quinsonas, fund manager di M&G. “Ha forse assunto il ruolo del nuovo tasso privo di rischio?”.
A un primo sguardo, si potrebbe pensare che la crescente stabilità cinese abbia reso il Paese un porto sicuro rispetto alle incertezze degli Stati Uniti, segnati da un dollaro debole, tensioni politiche e timori per l’indipendenza della Fed. Ma secondo de Quinsonas, questa spiegazione “non regge”.
Già nel novembre 2024, infatti, la Cina aveva collocato 750 milioni di dollari in bond a 5 anni con un rendimento di appena 3 punti base sopra i Treasury, e da allora quei titoli “scambiano stabilmente oltre 30 punti base al di sotto dei titoli di Stato americani”. Una performance che precede le recenti turbolenze politiche negli Stati Uniti, suggerendo che il fenomeno non è legato al deterioramento della percezione di rischio americana.
Per l’esperto di M&G, la risposta va cercata nei fattori tecnici più che in quelli fondamentali. “La Cina ha un’esposizione in dollari molto contenuta, quindi c’è scarsità di titoli sul mercato, mentre le banche cinesi dispongono di abbondanti depositi in dollari e cercano asset in cui investirli”. Inoltre, spiega de Quinsonas, “alcuni investitori onshore beneficiano di un sistema di rimborsi fiscali sui redditi obbligazionari, aumentando ulteriormente la domanda”.
Secondo i dati raccolti durante l’emissione, il 53% del libro ordini proveniva dall’Asia e il 33% da istituzioni bancarie, mentre “banche centrali, fondi sovrani e istituzioni – che tendono a detenere i titoli fino a scadenza – rappresentavano circa il 26% della domanda”. Tutti elementi che hanno contribuito a creare una pressione tecnica favorevole e una forte tenuta dei prezzi.
La Cina, tuttavia, non ha ancora conquistato la piena leadership sui mercati obbligazionari globali. Il Governo ha annunciato l’intenzione di emettere fino a 4 miliardi di euro in bond denominati in valuta europea, ma sul mercato dei titoli in euro il quadro appare diverso. I bond cinesi a 5 anni “continuano a scambiare tra i 20 e i 40 punti base sopra i Bund tedeschi”, osserva de Quinsonas, “quindi non si può ancora parlare di nuova ‘risk-free rate’”.
Una cosa è certa: la crescente fiducia degli investitori nella solidità finanziaria di Pechino segna un cambiamento importante negli equilibri globali dei mercati del debito. Resta da vedere se si tratti di una dinamica temporanea o di un segnale duraturo di trasformazione del sistema finanziario internazionale.
