Mercati incerca di un equilibrio

Quando i cicli di rialzo si prolungano più per inerzia che per ragioni legate ai fondamentali si crea uno stato di intossicazione mentale. Lo stesso avviene naturalmente, come si è visto sui dazi, quando un fattore potenzialmente negativo viene amplificato all’inverosimile ancora prima che produca davvero gli effetti temuti.

Per i dazi si è trattato di paure legate a letture dottrinarie e ideologiche di una deviazione dall’ortodossia del quarantennio neoliberale e del ventennio della globalizzazione. I mercati dimenticano in fretta, ma giova ricordare che, nelle stime di molte prestigiose case, la fine del 2025 avrebbe portato a una seria stagflazione americana, preludio di una possibile recessione l’anno prossimo. Si ipotizzava anche un’esplosione del disavanzo federale per effetto dei tagli fiscali di Trump. Qualcuno ricorderà che si parlava di un deficit pubblico dell’8%, che si sarebbe poi aggravato con l’esaurimento progressivo delle entrate fiscali legate ai capital gain e con il rallentamento dell’economia.

A smentire questa narrazione arriva ora uno studio di una Fed regionale decisamente liberal, quella di San Francisco (What Is a Tariff Shock? Insights from 150 years of Tariff Policy). Nelle parole di uno degli autori, Regis Barnichon, la storia delle tariffe dal 1870 a oggi non mostra alcuna relazione sistematica tra la direzione delle tariffe e l’andamento del ciclo economico. Se c’è un effetto sull’inflazione, questo è di abbassarla nel medio termine. A queste conclusioni si arriva anche limitando le osservazioni al periodo successivo al 1945 e allargandole ai principali paesi europei.

Un’altra osservazione empirica che ridimensiona le paure dei mesi passati è che i dazi effettivi, quelli calcolati come rapporto tra gli importi pagati dagli importatori e il valore delle importazioni, sono molto più bassi di quelli ufficiali. Brad Setser, un brillante economista che studia il commercio internazionale, prende ad esempio i dati più recenti, relativi ad agosto, e nota che, escludendo la Cina, le tariffe effettive sono del 7.5 per cento, praticamente la metà di quel 15 per cento su cui si sono assestati gli accordi con Europa, Giappone, Svizzera e Corea. E anche per la Cina sono ben al di sotto dei dazi teorici.

Possiamo dunque stare un po’ più sereni sui dazi, che oltretutto sono in fase calante e che verranno ulteriormente ridimensionati dalla Corte Suprema entro la fine dell’anno.

In compenso, siamo decisamente meno euforici e intossicati sul tema dell’intelligenza artificiale. Nelle ultime due settimane la disintossicazione ha rischiato di trasformarsi in depressione e ostilità. I concetti di castello di carte, di vendor financing circolare per cui A dà credito o compra nuova equity di B così che B possa comprare i servizi di A, di ricorso crescente al debito di un settore che si era finora autofinanziato, di deprezzamento velocissimo dei massicci investimenti, di modesti ricavi a fronte di esborsi giganteschi, di possibile ricorso ai salvataggi pubblici, tutti questi concetti hanno improvvisamente sostituito le narrazioni sulla singolarità tecnologica che farà esplodere la produttività e ci cambierà in meglio la nostra vita come non è mai successo nella storia.

I dati di Nvidia hanno rasserenato i mercati e fatto uscire di scena la narrazione sullo scoppio della bolla appena iniziato e destinato a proseguire con esiti infausti. Ora, rispetto all’AI, i mercati hanno una visione più critica e articolata. Rimane certamente nel retail uno zoccolo duro di entusiasti, ma tra gli istituzionali prevale ora un atteggiamento cautamente razionale. Gli stessi dati di Nvidia, pur eccellenti, vengono dissezionati per coglierne le criticità, come il citato massiccio uso del vendor financing e la concorrenza crescente dei processori autoprodotti da Google e Amazon, che metteranno in prospettiva pressione al ribasso sui prezzi.

La selettività, non la negatività, è il segno distintivo della fase attuale rispetto all’AI. Bene i produttori di memorie, bene i produttori di energia e di hardware elettrico necessari ai data center, bene gli investimenti finanziati con il cash flow e non col debito, bene i produttori di linguaggi che fanno registrare progressi (come Gemini-3). Meno bene quelli che restano indietro nella corsa al perfezionamento dei linguaggi, quelli che spendono troppo e senza una strategia chiara e quelli che fanno ricorso aperto o occulto al debito (si veda l’uso disinvolto di veicoli separati e non consolidati per indebitarsi senza farlo vedere).

Anche sul tema della crescita si apre una fase in cui potrebbe prevalere un atteggiamento più equilibrato. È dalla metà del 2023 che si continua a parlare di un imminente rallentamento della crescita americana e i 43 giorni di chiusura degli uffici federali di statistica, mettendo i mercati in uno stato di privazione sensoriale che alla lunga favorisce i cattivi pensieri, hanno riacceso il dibattito sulla crisi del mercato del lavoro e sull’imminente rallentamento e, forse, recessione.

I modelli delle Fed regionali hanno però continuato a disegnare un quadro di ottima crescita, al quale oggi si aggiunge un dato positivo (anche se non recente) sull’occupazione. Anche guardando al resto del mondo, si vede un’Europa molto stabile sulla quale stanno per arrivare (magari in ritardo e un po’ meno efficaci del previsto, ma comunque positivi) gli effetti dello stimolo fiscale tedesco. Quanto alla Cina, sia pure attraverso il ricorso all’indebitamento e ad esportazioni massicce, la crescita non si allontanerà nemmeno quest’anno dall’obiettivo del 5 per cento.

Siamo appena all’inizio del processo di elaborazione dei dati arretrati americani, che si susseguiranno con ritmo serrato da qui alla fine dell’anno, ma possiamo immaginare che, salvo sorprese, non avremo una riedizione del pessimo Natale del 2018, quando Powell aprì uno scontro con Trump in nome di un’inflazione inesistente. Può darsi che di nuovo, in dicembre, la Fed decida (questa volta con qualche argomento in più) di andare allo scontro con Trump rifiutandosi di tagliare i tassi. Questa volta il mercato, pur deluso, non ne farà un dramma e chiuderà l’anno non troppo lontano dai massimi.

A cura di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos (rubrica Il Rosso e il Nero)