Il dilemma della Fed e i potenziali riflessi sui mercati finanziari

Diventa sempre più difficile per la Fed far quadrare il cerchio tra le aspettative di riduzione dei tassi del mercato con il rischio di far ripartire l’inflazione negli States e vanificare il lavoro degli ultimi 18 mesi, o lasciare i tassi invariati penalizzando il lavoro e la crescita economica Usa che, con gli effetti dei dazi, potrebbe addirittura diventare negativa nel primo trimestre del 2026.

All’interno del mosaico complessivo dei dati economici, i mercati hanno colto i contorni di una prospettiva di crescita economica sostenuta. Le revisioni al rialzo del PIL Usa hanno portato la crescita oltre il 3% negli ultimi sei mesi, sostenuta da una forte produttività, da un rimbalzo dei consumi e dal boom degli investimenti legati all’IA e alla proprietà intellettuale. Gli utili restano solidi, l’inflazione è rimasta relativamente contenuta nonostante i dazi e le politiche OBBBA di stimolo stanno solo iniziando a dispiegare i loro effetti. Gli asset rischiosi hanno beneficiato di questo scenario, ma anche l’oro, che sembra aver acquisito lo stato di asset di investimento, oltre a quello di tradizionale bene rifugio, è salito. Inoltre, i mercati stanno prezzando tassi d’interesse più bassi tra un anno, e la Fed ha già ridotto il suo tasso di riferimento dal 4,25% al 4% a settembre, con un sostegno crescente a ulteriori allentamenti fino al 2026.

La domanda è quindi come farà la Fed a far quadrare il cerchio tra i suoi due mandati, salvaguardando la crescita economica? Proprio quest’ultima resta disomogenea e apparentemente insufficiente ad impedire un graduale aumento della disoccupazione o a spingere l’inflazione molto più in alto al di fuori degli effetti dei dazi. Questo suggerisce una crescita potenziale ancora sostenuta, accompagnata da pressioni disinflazionistiche.

Notiamo inoltre come la spesa sia biforcata, trainata soprattutto dalle famiglie con redditi più alti che beneficiano dei forti aumenti dei prezzi degli asset. Nel frattempo, le famiglie a reddito più basso sono sotto pressione a causa di costi di indebitamento elevati, del rallentamento della crescita di salari e stipendi e di una maggiore sensibilità ai dazi. Di fatto, gran parte della riaccelerazione dei consumi nei mesi estivi è dipesa da un calo del risparmio, base fragile però dato un tasso di risparmio personale già modesto.

Una crescita robusta di per sé non implica che i tassi debbano aumentare o restare alti. Man mano che l’inflazione torna all’obiettivo (2%), i tassi devono essere tagliati affinché non diventino restrittivi rispetto al nuovo contesto di inflazione più bassa. Le deviazioni cicliche di inflazione e disoccupazione dai rispettivi obiettivi aumentano o riducono il tasso neutrale (il tasso reale al quale tali deviazioni sono nulle), spingendo il tasso sui federal funds (FFR) a salire o scendere per colmare questi scarti. Quando inflazione e disoccupazione sono in linea con gli obiettivi, l’FFR è pari a al tasso neutrale più l’obiettivo di inflazione, e non è né espansivo né restrittivo.

Mentre il tasso neutrale non è osservabile, l’attuale combinazione di forte produttività, domanda di lavoro in attenuazione e inflazione contenuta nonostante i dazi molto più elevati e la riaccelerazione della crescita, sono coerenti con una domanda che insegue l’offerta e indica un FFR restrittivo.

È importante notare che il tasso neutrale si sposta con i cambiamenti strutturali dell’economia, ancorando i tassi di policy più in alto o più in basso anche se l’inflazione è bassa e stabile. Per esempio, se la domanda è forte ma frenata dal rallentamento della crescita demografica proprio mentre l’output potenziale aumenta bruscamente (poniamo a seguito della deregolamentazione e di un’impennata della produttività legata all’IA), il tasso neutrale stesso si sposterebbe verso il basso, esercitando pressione al ribasso sull’FFR.

Miran, nuovo membro del board della Fed sostiene proprio questo: una valutazione attenta dei cambiamenti strutturali nella crescita dell’output potenziale e nel tasso neutrale, è particolarmente importante nel contesto degli attuali cambiamenti di policy di grande portata. Avendo dissentito a favore di un taglio di 50 punti a settembre, ha successivamente spiegato perché ritiene che la politica della Fed debba essere ulteriormente e sostanzialmente allentata.

L’analisi di Miran parte da un tasso neutrale nominale di base tra il 3,6% e il 3,9%, che aggiusta in base agli effetti, documentati dalla ricerca, dei fattori che tipicamente ne influenzano l’andamento. Tiene quindi conto di un impulso negativo sull’FFR appropriato dovuto a minori aspettative di inflazione degli affitti, nonché degli effetti delle politiche sull’output potenziale. Dopo aver compensato l’impatto dei fattori che considera più significativi (demografia, politica migratoria, dazi, tasse, inflazione degli affitti), giunge a un livello appropriato di FFR inferiore di 1,5 – 2,0 punti percentuali rispetto ai livelli attuali, in gran parte a causa di un calo netto di 1,20 pp del tasso neutrale. Pertanto Miran stima approssimativamente un tasso dei federal funds appropriato intorno al 2% – 2,5% rispetto al 4% attuale.

Sebbene resti da vedere di quanto la Fed taglierà, aggiungiamo che la Fiscal Impact Measure dell’Hutchins Center indica una politica fiscale statale e locale moderatamente restrittiva fino al 2027 con il Congressional Budget Office che ha ridotto le sue proiezioni di deficit. Un impulso fiscale negativo (ossia deficit ancora elevati ma più bassi) riduce il tasso neutrale. Finora i dazi hanno funzionato come una tassa, comprimendo soprattutto i margini di profitto e frenando investimenti e assunzioni. Secondo Oxford Economics, le evidenze della “guerra commerciale” del 2018 mostrano anche che gli effetti negativi sull’occupazione, con ritardi di sei-nove mesi, hanno prevalso sugli effetti sull’inflazione. Siamo convinti che ciò esercita anche pressioni al ribasso sui tassi di interesse.

L’IA complica però ulteriormente il quadro. Una diffusione più ampia potrebbe ampliare l’output gap, sostituendo potenziali lavoratori e frenando i redditi, mantenendo la domanda al di sotto di un potenziale di offerta in aumento. Finché il mercato del lavoro non si adatterà e non emergeranno nuovi posti tramite una “distruzione creatrice”, riteniamo che la disinflazione possa continuare, mantenendo anche i tassi di policy sotto pressione al ribasso.

I mercati vedono anche la Fed propendere per l’accomodamento in un contesto di rapidi cambiamenti tecnologici e di policy. La politica monetaria tuttavia può affrontare principalmente i gap congiunturali dell’output. Se l’offerta trainata dall’IA dovesse superare strutturalmente la crescita dei redditi e della domanda, potrebbero essere necessari strumenti di politica non monetaria, come per esempio un fondo sovrano che distribuisca dividendi alle famiglie come reddito di base. Le aspettative di tassi più bassi, i fermenti attorno a tali strumenti e le recenti partecipazioni azionarie del Governo in imprese private potrebbero far pensare in quella direzione.

A cura di Antonio Tognoli, responsabile macro analisi e comunicazione di Cfo Sim