Debito globale, tra inflazione e repressione finanziaria: le nuove sfide per le economie avanzate

L’indebitamento pubblico mondiale è cresciuto in modo significativo negli ultimi vent’anni, alimentato da crisi economiche, cambiamenti demografici e nuove esigenze infrastrutturali e di sicurezza. Come osserva Antonio Tognoli, responsabile macro analisi e comunicazione di Cfo Sim, “L’indebitamento pubblico in tutto il mondo è aumentato notevolmente negli ultimi due decenni”. La crisi finanziaria del 2008 e quella pandemica del 2020 hanno imposto interventi straordinari finanziati in deficit, necessari per evitare scenari ben peggiori.

Tra il 2008 e il 2021, tassi di interesse estremamente bassi hanno consentito ai governi di sostenere il peso del debito senza pressioni rilevanti sui conti pubblici. Il quadro però è cambiato bruscamente con il balzo dell’inflazione dopo la pandemia, che ha spinto le banche centrali ad aumentare i tassi. Tognoli ricorda: “Le banche centrali e i mercati sono intervenuti per aumentare il costo del credito e gli interessi sul debito hanno rapidamente scalato le prime posizioni delle voci di bilancio nazionali”.

Parallelamente, deficit annuali superiori al 5% del PIL, un tempo eccezionali, sono diventati frequenti anche in periodi di crescita moderata. Ciò ha acuito la polarizzazione politica e frenato la capacità decisionale delle legislature, con ripercussioni visibili sui mercati europei la scorsa estate e negli Stati Uniti durante il recente shutdown.

Quando e come finirà?

La domanda centrale è se e quando questo percorso diventerà insostenibile. Si tornerà a un periodo di austerità? Oppure rivedremo all’opera i “bond vigilantes”, pronti a punire governi percepiti come fiscalmente irresponsabili? Potrebbe persino profilarsi un intervento del Fondo Monetario Internazionale verso una grande economia, come accadde con il Regno Unito negli anni ’70?

Secondo Tognoli, gli scenari più estremi non sono i più probabili: “Crediamo che il più disastroso di questi risultati non si raggiungerà mai”. A scongiurare le derive peggiori potrebbe contribuire la repressione finanziaria, un insieme di politiche pensate per contenere il costo del debito statale. “È la pratica che i governi utilizzano per limitare il proprio indebitamento o gli interessi pagati su tale debito”, spiega Tognoli, citando tassi artificialmente bassi, inflazione tollerata o incentivata e spinta verso l’acquisto di titoli di Stato.

Il ruolo delle banche centrali

La repressione finanziaria passa spesso dalla banca centrale, che può essere indotta ad abbassare i tassi oltre quanto suggerito dai fondamentali o a comprare ingenti quantità di debito pubblico. L’apertura verso questa strategia è avvenuta nel 2008 con l’arrivo del quantitative easing. Da allora, molte banche centrali detengono quote consistenti dei titoli di Stato dei rispettivi paesi.

Il processo inverso – la riduzione di tali partecipazioni – si sta rivelando complesso. “Per la seconda volta in sei anni, la Fed è stata recentemente costretta a interrompere il suo deflusso di bilancio prima del previsto”, osserva Tognoli. La motivazione ufficiale è la scarsa liquidità dei mercati, condizione che rischia di imporre una presenza strutturale delle banche centrali nel finanziamento dei governi, con conseguente indebolimento della loro indipendenza.

Il rischio inflazionistico

Questa forma di repressione finanziaria comporta un effetto collaterale noto: l’aumento dell’inflazione. Tognoli ricorda come gli Stati Uniti “abbiano utilizzato questa tattica negli anni ’70” per gestire il debito della guerra in Vietnam, con un’inflazione che a fine decennio raggiunse il 13,5%. E avverte: “Potrebbe esserci il rischio che le banche centrali permettano all’inflazione di crescere nel decennio a venire, un evento a cui i mercati non sono preparati”.

Le nuove varianti della repressione

Oggi emergono forme ulteriori di repressione finanziaria. “L’accordo di Mar-A-Lago prevede che i governi stranieri detengano allocazioni di titoli del Tesoro statunitense per contribuire a gestire il valore del dollaro”, spiega Tognoli. I controlli sui capitali e i requisiti di liquidità bancari possono inoltre spingere i flussi finanziari verso il debito pubblico: le banche statunitensi detengono oggi 2.000 miliardi di dollari in più di titoli governativi rispetto a sei anni fa.

Misure che, a un primo sguardo, non sembrano dannose, ma che comportano distorsioni significative. “Le politiche che limitano la libertà di movimento dei capitali impediscono che raggiungano destinazioni ottimali sotto il profilo rischio/rendimento”, sottolinea Tognoli. E aggiunge: “Il denaro bloccato nei titoli di Stato non può essere allocato a investimenti più produttivi… tassi di interesse artificialmente bassi gravano sui risparmiatori e possono tradursi in livelli inferiori di risparmio nazionale”.

Un equilibrio delicato

La gestione del debito pubblico mondiale entra così in una fase in cui la linea di demarcazione tra stabilità e distorsione diventa sempre più sottile. Le politiche di repressione finanziaria possono evitare crisi traumatiche, ma generano costi economici non trascurabili e rischi di lungo periodo.

Come conclude Tognoli, le economie dovranno affrontare costi inevitabili e la vera sfida sarà distribuirli in modo equilibrato, senza compromettere fiducia, crescita e stabilità.