Dall’inizio dell’anno il dollaro Usa ha mostrato segni di debolezza, un fenomeno che si è accentuato dopo gli annunci sui dazi del 2 aprile. Le nuove misure commerciali hanno colpito non solo la valuta americana, ma anche le azioni e i titoli del Tesoro statunitense, dando vita a un insolito calo simultaneo di tre asset tradizionalmente forti. Un andamento che ha alimentato dubbi sullo status del dollaro come valuta di riserva globale e sulla sua attrattiva per gli investitori internazionali.
Antonio Tognoli, responsabile macro analisi e comunicazione di Cfo Sim, invita tuttavia alla prudenza nelle interpretazioni. “Non vediamo prove a sostegno di tali preoccupazioni”, afferma. “Sì, il dollaro si è indebolito, ma appare ancora storicamente forte rispetto alle altre principali valute. Dall’estate è rimasto per lo più stabile, nonostante le tensioni sull’indipendenza della Fed, mantenendosi in equilibrio con l’Euro e rafforzandosi rispetto allo Yen”.
Secondo Tognoli, se fosse in corso un cambiamento strutturale, il dollaro avrebbe mostrato un indebolimento più ampio e profondo. “Un vero cambio di paradigma avrebbe comportato una rottura dei rapporti storici con i consueti driver, con un indebolimento generalizzato rispetto alle altre valute dei mercati sviluppati. Ma non è andata così”, osserva.
Per l’esperto, la debolezza del dollaro nel 2025 è spiegabile attraverso due fattori principali. “Il primo è rappresentato dalle aspettative di un taglio dei tassi. L’allentamento monetario previsto dalla Fed è responsabile di circa la metà del calo del dollaro”, spiega Tognoli. “Tassi più bassi riducono il vantaggio di rendimento della valuta americana rispetto alle altre, ma al tempo stesso sostengono i guadagni delle azioni statunitensi, già trainate dal tema dell’intelligenza artificiale”.
Il secondo fattore riguarda l’irripidimento della curva dei rendimenti, legato alle crescenti preoccupazioni sul debito globale. “Per anni gli investitori hanno favorito le obbligazioni a lungo termine, confidando nella loro stabilità. Ma il premio a termine, cioè la remunerazione per il rischio di detenere titoli di lungo periodo, era sceso ben al di sotto dei livelli storici, nonostante l’aumento del debito pubblico”, spiega Tognoli. “Ora quel premio sta tornando a livelli più normali, perché crescono le preoccupazioni sul costo del servizio del debito. E questa dinamica non riguarda solo gli Stati Uniti, ma anche gli altri Paesi sviluppati, contribuendo al rialzo dei rendimenti obbligazionari e alla debolezza diffusa delle valute rispetto all’oro”.
Nonostante questo contesto complesso, emergono opportunità per gli investitori. “Tassi più bassi e il tema dell’intelligenza artificiale continueranno a sostenere le azioni statunitensi, ma esistono anche occasioni selettive altrove”, sottolinea Tognoli. “In Europa, per esempio, favoriamo i titoli spagnoli, che in dollari USA hanno guadagnato quasi il 60% da inizio anno secondo i dati MSCI”.
Nei mercati emergenti, l’attenzione si sposta invece sul debito in valuta locale. “I titoli di Stato brasiliani a dieci anni offrono un rendimento vicino al 14%, mentre il real è salito di quasi il 12% nel 2025”, ricorda Tognoli citando dati Bloomberg. “Inoltre, le azioni sudcoreane e sudafricane hanno registrato rialzi superiori al 55% in dollari Usa”.
Con i rendimenti in aumento e le obbligazioni dei mercati sviluppati meno affidabili come copertura, cresce anche l’interesse per l’oro. “L’aumento dei rendimenti riduce la funzione di zavorra dei titoli di Stato a lungo termine. In questo contesto, l’oro resta una valida alternativa per diversificare rischio e rendimento”, conclude Tognoli.